manifesto dell'abitare
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Manifesto

Il Manifesto dell’Abitare è segnato dall’indisciplinarietà: il principio per cui una vera visione d’insieme non si raggiunge con l’apporto di una sola area d’esperienza.

Ecco perché nessuno dei fondatori è un tecnico del settore ed ecco perché quel primo “rendering a parole”, ideale e atipico, deve tanto alla storia, alla letteratura, alla psicologia e alla sociologia.

Curiosi e affascinati dall’innovazione e dal futuro, vogliamo misurare l’abitare non solo in metri quadri, ma in qualità delle relazioni, partendo dalle mura domestiche fino alla scoperta del quartiere.

Cosa si perderebbe se in un’abitazione venisse meno la cucina, o il salotto? Non soltanto una funzione pratica. Nel dialogo tra Strategy Innovation e imprese, professionisti e accademici sono emersi i valori relazionali e simbolici che ciascuna stanza è capace di generare e coltivare, ancor più se in rapporto con gli altri spazi.
Per questo si può leggere una sola stanza, come una singola strofa, o il Manifesto completo, come una canzone: purché ognuno definisca la sua giusta di-stanza.

di
stanze

Il paradosso che regola qualsiasi forma di co-abitazione si muove tra i due estremi della socialità e dell’individualità. Tra lo stare insieme in comunità, in famiglia o in coppia e lo stare da soli, liberi da vincoli relazionali.

Ma perché parlare di paradosso in riferimento all’abitare? Innanzitutto, va specificato che il paradosso rappresenta essenzialmente una tensione fra due opposti; tuttavia, si distingue da altre forme tensionali, come i dilemmi (gli aut-aut, in altre parole) o i compromessi. I due estremi di un paradosso sono infatti contrapposti e inconciliabili solo in apparenza, poiché la loro coesistenza appare possibile, se li contempliamo in una prospettiva più ampia. Proprio perché ci spingono a rivedere e reinterpretare un contrasto che sembra non offrire via d’uscita, i paradossi sono stati definiti ‘macchine del pensiero’: stimolano la creatività, il pensiero laterale e la conoscenza in senso lato - basti pensare ai paradossi visivi di Picasso o a quelli della meccanica quantistica.

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Salotto
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Ed ecco ogni pupilla
scopre nel vano focolare il fioco
fioco riverberìo d’una farfalla.
Intorno al vano focolare a poco
a poco niuno trema più né geme
più: sono al caldo; e non li scalda il fuoco,
ma quel loro soave essere insieme.

Giovanni Pascoli

Ed ecco ogni pupilla
scopre nel vano focolare il fioco
fioco riverberìo d’una farfalla.
Intorno al vano focolare a poco
a poco niuno trema più né geme
più: sono al caldo; e non li scalda il fuoco,
ma quel loro soave essere insieme.

Giovanni Pascoli

All’interno della casa, il salotto è forse l’unica stanza non direttamente collegata ad alcun bisogno fisico e fisiologico, tanto che potremmo progettare una casa perfettamente funzionale anche senza salotto. Ripensando alle case delle generazioni passate, in effetti, ci accorgiamo che spesso il salotto era una stanza chiusa, intoccabile, dove si entrava raramente e solamente per contemplarne mobili e oggetti d’arredo messi in mostra come opere d’arte in un museo.

Al contrario, oggi il salotto è diventato la stanza dove si vive, come indica il termine inglese living room, una stanza viva, in costante movimento e libera di adattarsi alle necessità del momento e delle persone che la occupano, trasformandosi in luogo di ritrovo, ma anche sala da pranzo, ufficio, spazio di gioco e intrattenimento.

Spogliato dai vincoli della funzionalità, il salotto diviene sede di quelle attività che, non direttamente riferibili ai bisogni fisici e fisiologici, interagiscono con la sfera delle emozioni e dei sentimenti, con i bisogni dello spirito e di quell’animo che sentiamo senza vedere e che necessita di conoscenza, cultura, socializzazione, affermazione della propria individualità e stima presso la collettività. Il salotto assume allora un valore sacrale, andando a sostituire l’antico focolare domestico, centro della casa nonché fonte di luce e di calore.

Recuperando l’originaria funzione di spazio comunitario di aggregazione, il salotto del futuro rappresenta la sintesi armonica tra spazio pubblico e privato, socializzazione e intimità. All’interno del salotto, infatti, si svolge la maggior parte delle dinamiche e dei rituali (fisici o virtuali) che scandiscono le relazioni fra i membri di una stessa famiglia, di un gruppo di amici o di colleghi. Allo stesso tempo, alla fine di una lunga giornata, il salotto può trasformarsi in un’oasi di calma e piacevole indugio, dove riscoprire ogni giorno – da soli o in compagnia – la dolce sensazione di ‘essere a casa’.

All’interno della casa, il salotto è forse l’unica stanza non direttamente collegata ad alcun bisogno fisico e fisiologico, tanto che potremmo progettare una casa perfettamente funzionale anche senza salotto. Ripensando alle case delle generazioni passate, in effetti, ci accorgiamo che spesso il salotto era una stanza chiusa, intoccabile, dove si entrava raramente e solamente per contemplarne mobili e oggetti d’arredo messi in mostra come opere d’arte in un museo.

Al contrario, oggi il salotto è diventato la stanza dove si vive, come indica il termine inglese living room, una stanza viva, in costante movimento e libera di adattarsi alle necessità del momento e delle persone che la occupano, trasformandosi in luogo di ritrovo, ma anche sala da pranzo, ufficio, spazio di gioco e intrattenimento.

Spogliato dai vincoli della funzionalità, il salotto diviene sede di quelle attività che, non direttamente riferibili ai bisogni fisici e fisiologici, interagiscono con la sfera delle emozioni e dei sentimenti, con i bisogni dello spirito e di quell’animo che sentiamo senza vedere e che necessita di conoscenza, cultura, socializzazione, affermazione della propria individualità e stima presso la collettività. Il salotto assume allora un valore sacrale, andando a sostituire l’antico focolare domestico, centro della casa nonché fonte di luce e di calore.

Recuperando l’originaria funzione di spazio comunitario di aggregazione, il salotto del futuro rappresenta la sintesi armonica tra spazio pubblico e privato, socializzazione e intimità. All’interno del salotto, infatti, si svolge la maggior parte delle dinamiche e dei rituali (fisici o virtuali) che scandiscono le relazioni fra i membri di una stessa famiglia, di un gruppo di amici o di colleghi. Allo stesso tempo, alla fine di una lunga giornata, il salotto può trasformarsi in un’oasi di calma e piacevole indugio, dove riscoprire ogni giorno – da soli o in compagnia – la dolce sensazione di ‘essere a casa’.

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Cucina
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Cucina
Cucina

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi
chi non cambia la marca, il colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all’amore e ai sentimenti.

Marta Medeiros

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi
chi non cambia la marca, il colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all’amore e ai sentimenti.

Marta Medeiros

Come ci mostra la madeleine proustiana, il cibo non è solo nutrimento per il corpo: attraverso gusti, sapori, odori è possibile rievocare dolci – o amari – ricordi passati, ma anche crearne di nuovi. Fin dall’antichità, infatti, il cibo è innanzitutto condivisione e convivialità; l’ospite viene sempre accolto a tavola, sfarzosa o frugale, in segno di rispetto e benevolenza.

Cucinare per qualcuno, provvedere non solo alla sua sazietà, ma anche al suo godimento, rappresenta un vero e proprio atto d’amore, espressione di cura e interesse per il benessere del prossimo, o di sé.

La cucina allora si trasforma in un palcoscenico delle passioni, dove si assiste alla nascita di nuove relazioni, al lento scorrere della quotidianità condivisa con gli affetti più cari, ma anche alla rottura dei legami più fragili. Che si tratti del primo invito a cena di due innamorati, del tradizionale pranzo di Natale con tutti i parenti, o anche di una colazione condivisa in silenzio prima di iniziare ciascuno la propria giornata, in cucina si condividono emozioni, racconti, discussioni e ricordi.

In una società privilegiata, in cui l’accesso al cibo è sempre garantito, la cucina acquista una dimensione etica, diventando spazio di scelta e responsabilità ambientale e sociale. Contro i dettami dell’industrializzazione standardizzata e iperproduttiva, la cucina attuale torna a basarsi sulla biodiversità e sulla stagionalità, prediligendo prodotti locali provenienti da filiere sostenibili.

Più che un luogo fisico, la cucina rappresenta quindi uno spazio mentale, luogo aperto, fluido, dove c’è spazio per tutti: chef stellati, blogger, cuochi amatoriali e dilettanti diventano membri di una ‘community’, vera e propria grande famiglia virtuale.

Come ci mostra la madeleine proustiana, il cibo non è solo nutrimento per il corpo: attraverso gusti, sapori, odori è possibile rievocare dolci – o amari – ricordi passati, ma anche crearne di nuovi. Fin dall’antichità, infatti, il cibo è innanzitutto condivisione e convivialità; l’ospite viene sempre accolto a tavola, sfarzosa o frugale, in segno di rispetto e benevolenza.

Cucinare per qualcuno, provvedere non solo alla sua sazietà, ma anche al suo godimento, rappresenta un vero e proprio atto d’amore, espressione di cura e interesse per il benessere del prossimo, o di sé.

La cucina allora si trasforma in un palcoscenico delle passioni, dove si assiste alla nascita di nuove relazioni, al lento scorrere della quotidianità condivisa con gli affetti più cari, ma anche alla rottura dei legami più fragili. Che si tratti del primo invito a cena di due innamorati, del tradizionale pranzo di Natale con tutti i parenti, o anche di una colazione condivisa in silenzio prima di iniziare ciascuno la propria giornata, in cucina si condividono emozioni, racconti, discussioni e ricordi.

In una società privilegiata, in cui l’accesso al cibo è sempre garantito, la cucina acquista una dimensione etica, diventando spazio di scelta e responsabilità ambientale e sociale. Contro i dettami dell’industrializzazione standardizzata e iperproduttiva, la cucina attuale torna a basarsi sulla biodiversità e sulla stagionalità, prediligendo prodotti locali provenienti da filiere sostenibili.

Più che un luogo fisico, la cucina rappresenta quindi uno spazio mentale, luogo aperto, fluido, dove c’è spazio per tutti: chef stellati, blogger, cuochi amatoriali e dilettanti diventano membri di una ‘community’, vera e propria grande famiglia virtuale.

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Studio
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Lavorare è meno noioso che divertirsi.

Charles Baudelaire

Lavorare è meno noioso che divertirsi.

Charles Baudelaire

Una grande finestra ad arco in stile catalano si apre sullo studio di San Girolamo, intento alla lettura come un dotto umanista, raffigurato nel celebre dipinto di Antonello da Messina. Lo studio è composto da una specie di vano rialzato di tre gradini, immerso in un’ampia costruzione gotica con a destra un portico rinascimentale; si respira un’atmosfera austera, solenne e sembra quasi di sentire il rumore dei pensieri del monaco erudito.

Oggi, questa immagine appare allo stesso tempo attuale e obsoleta: se da un lato l’avvento dello smart working ha trasformato la casa nel luogo di lavoro per eccellenza, dall’altro ci ritroviamo spesso a passare intere giornate seduti davanti a scrivanie improvvisate su tavoli da pranzo o, addirittura, assi da stiro.

Lo studio è quindi delimitato da confini sempre più labili e gli spazi dedicati alla sfera privata e a quella lavorativa, prima distinti, ora si sovrappongono fino a coincidere. Entrambe le sfere subiscono delle interferenze: piccole intrusioni da parte degli altri abitanti della casa, scomode richieste di lavoro durante i momenti dedicati alla famiglia. È necessario considerare le esigenze di tutti gli abitanti della casa grazie a una progettazione degli spazi che soddisfi al meglio le necessità delle distanze e dell’intimità, dando loro nuovi significati.

Come ci ricorda “Abitacolo” di Bruno Munari, lo studio può essere luogo di lavoro, ma anche di svago: basta non aver paura di modificare le nostre stanze, trasformando il lavoro non solo in smart, ma addirittura in fun. Lo studio del futuro prevede allora una zona smart working che permette di lavorare senza interruzioni, e una zona fun working che consente sì di lavorare, ma condividendo gli spazi con gli altri membri della famiglia, in particolar modo quelli che prendono il divertimento più seriamente del lavoro, come figli e nipoti. E potremmo quasi affermare che sono proprio loro ad avere ragione, come se intuissero il significato nascosto nell’origine del termine studio: dal latino studere (aspirare, desiderare intensamente) nell’atto di studiare vi è un qualcosa di profondamente allettante, desiderabile, accattivante.

Una grande finestra ad arco in stile catalano si apre sullo studio di San Girolamo, intento alla lettura come un dotto umanista, raffigurato nel celebre dipinto di Antonello da Messina. Lo studio è composto da una specie di vano rialzato di tre gradini, immerso in un’ampia costruzione gotica con a destra un portico rinascimentale; si respira un’atmosfera austera, solenne e sembra quasi di sentire il rumore dei pensieri del monaco erudito.

Oggi, questa immagine appare allo stesso tempo attuale e obsoleta: se da un lato l’avvento dello smart working ha trasformato la casa nel luogo di lavoro per eccellenza, dall’altro ci ritroviamo spesso a passare intere giornate seduti davanti a scrivanie improvvisate su tavoli da pranzo o, addirittura, assi da stiro.

Lo studio è quindi delimitato da confini sempre più labili e gli spazi dedicati alla sfera privata e a quella lavorativa, prima distinti, ora si sovrappongono fino a coincidere. Entrambe le sfere subiscono delle interferenze: piccole intrusioni da parte degli altri abitanti della casa, scomode richieste di lavoro durante i momenti dedicati alla famiglia. È necessario considerare le esigenze di tutti gli abitanti della casa grazie a una progettazione degli spazi che soddisfi al meglio le necessità delle distanze e dell’intimità, dando loro nuovi significati.

Come ci ricorda “Abitacolo” di Bruno Munari, lo studio può essere luogo di lavoro, ma anche di svago: basta non aver paura di modificare le nostre stanze, trasformando il lavoro non solo in smart, ma addirittura in fun. Lo studio del futuro prevede allora una zona smart working che permette di lavorare senza interruzioni, e una zona fun working che consente sì di lavorare, ma condividendo gli spazi con gli altri membri della famiglia, in particolar modo quelli che prendono il divertimento più seriamente del lavoro, come figli e nipoti. E potremmo quasi affermare che sono proprio loro ad avere ragione, come se intuissero il significato nascosto nell’origine del termine studio: dal latino studere (aspirare, desiderare intensamente) nell’atto di studiare vi è un qualcosa di profondamente allettante, desiderabile, accattivante.

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Palestra
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Il principio della felicità umana consiste essenzialmente in tre cose: natura, ragione, esercizio.

Erasmo Da Rotterdam

Il principio della felicità umana consiste essenzialmente in tre cose: natura, ragione, esercizio.

Erasmo Da Rotterdam

Nell’antica Grecia, la palaistra, luogo dedicato all’addestramento sportivo e alla lotta, costituiva l’elemento più importante del ginnasio, centro dell’educazione dei ragazzi dai dodici ai diciotto anni. Considerare la palestra come semplice spazio di allenamento sarebbe quindi riduttivo.

È ormai risaputo che l’esercizio fisico apporta innumerevoli benefici, migliorando le funzioni cardiache e respiratorie, la forza muscolare, i livelli di endorfine e, in generale, il nostro aspetto fisico e la nostra autostima. Si dice spesso che lo sport, soprattutto quello di squadra, è una vera e propria ‘palestra di vita’, poiché rappresenta un momento di interazione sociale e competizione che insegna valori come la collaborazione e l’impegno per una causa comune, la gioia condivisa della vittoria ma anche la delusione per la sconfitta, nel rispetto dell’avversario e delle regole del gioco.

Più che lo sport, sembra essere il fitness la nuova tendenza destinata a prendere piede nel nostro quotidiano. Ma che cosa significa davvero fitness? Dall’inglese to fit, ‘adattarsi’, il termine descrive l’azione di adattamento di un soggetto alle circostanze; per estensione, quindi, viene generalmente utilizzato per indicare l’insieme di attività volte al raggiungimento di uno stato di benessere, inteso come «benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia», secondo la Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si può essere ‘fit’ anche senza essere atleti, dedicandosi all’esercizio fisico con obiettivi salutistici, estetici e di puro intrattenimento. Non sono perciò necessari attrezzi costosi o macchinari ingombranti: per abbracciare uno stile di vita sano ed equilibrato bastano costanza e buona volontà, che ci permettono di trasformare anche un terrazzino sgombro, un angolo di giardino o un qualsiasi spazio disponibile nella nostra personale palestra in cui allenare il corpo, ma soprattutto la mente – motore di ogni movimento.

Nell’antica Grecia, la palaistra, luogo dedicato all’addestramento sportivo e alla lotta, costituiva l’elemento più importante del ginnasio, centro dell’educazione dei ragazzi dai dodici ai diciotto anni. Considerare la palestra come semplice spazio di allenamento sarebbe quindi riduttivo.

È ormai risaputo che l’esercizio fisico apporta innumerevoli benefici, migliorando le funzioni cardiache e respiratorie, la forza muscolare, i livelli di endorfine e, in generale, il nostro aspetto fisico e la nostra autostima. Si dice spesso che lo sport, soprattutto quello di squadra, è una vera e propria ‘palestra di vita’, poiché rappresenta un momento di interazione sociale e competizione che insegna valori come la collaborazione e l’impegno per una causa comune, la gioia condivisa della vittoria ma anche la delusione per la sconfitta, nel rispetto dell’avversario e delle regole del gioco.

Più che lo sport, sembra essere il fitness la nuova tendenza destinata a prendere piede nel nostro quotidiano. Ma che cosa significa davvero fitness? Dall’inglese to fit, ‘adattarsi’, il termine descrive l’azione di adattamento di un soggetto alle circostanze; per estensione, quindi, viene generalmente utilizzato per indicare l’insieme di attività volte al raggiungimento di uno stato di benessere, inteso come «benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia», secondo la Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si può essere ‘fit’ anche senza essere atleti, dedicandosi all’esercizio fisico con obiettivi salutistici, estetici e di puro intrattenimento. Non sono perciò necessari attrezzi costosi o macchinari ingombranti: per abbracciare uno stile di vita sano ed equilibrato bastano costanza e buona volontà, che ci permettono di trasformare anche un terrazzino sgombro, un angolo di giardino o un qualsiasi spazio disponibile nella nostra personale palestra in cui allenare il corpo, ma soprattutto la mente – motore di ogni movimento.

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Camera
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Un uomo si giudicherebbe con ben maggiore sicurezza da quel che sogna che da quel che pensa.
Victor Hugo

Un uomo si giudicherebbe con ben maggiore sicurezza da quel che sogna che da quel che pensa.
Victor Hugo

L’espressione ‘chambre à coucher’ si impose pienamente solo a metà del XVIII secolo, segnando un’evoluzione nel modo di concepire e di organizzare la casa: si stava riconoscendo uno spazio riservato in modo specifico al sonno. Dormire, infatti, è una tecnica, allo stesso tempo bisogno fisiologico e consuetudine frutto di abitudini e tradizioni differenti: usare un materasso, una stuoia o un’amaca; quale tipo di cuscino preferire; dormire coperti o scoperti. Anche nel sonno, ciascuno adotta un proprio habitus che varia con le civiltà, i principi educativi, le convenienze, le mode, le intime distanze che ci legano agli esseri e alle cose.

Per questo, è necessaria l’armonia fra la forma del nostro riposo e quella del nostro abitare, che ci permette di conciliare mondo interiore, anche inconscio, e mondo esteriore.

Perfino quando crediamo di ritirarci con discrezione dalla società per recuperare le forze in una dimensione – quella del sonno – privata e inaccessibile, ci aggreghiamo invece più che mai alla comunità umana, poiché «disinteressarsi», come dice Bergson, implica essere in balia della comunità che veglia su di noi per lasciarci riposare.

Nel silenzio della camera da letto, facciamo esperienza delle relazioni più intime e profonde: quella con il proprio io inconscio attraverso il sogno, ma anche quella con l’altro, attraverso la fusione di corpi e anime. Sogno e sensualità sono intimamente legati e trovano la loro piena espressione nello spazio della camera da letto.

Così, essa va a rappresentare uno spazio di completo abbandono, dove lasciamo andare il controllo su noi stessi e sul mondo - non senza aver riesaminato le azioni del giorno appena trascorso e programmato quelle a venire.

Laddove Des Esseintes, protagonista del romanzo A ritroso di Huysmans, afferma che «v’erano solo due modi per arredare una stanza da letto: o farne un’eccitante alcova, un luogo di diletto notturno; oppure creare un luogo di solitudine e di riposo, un rifugio dei pensieri, una specie di oratorio», la camera da letto del futuro rappresenta, al contrario, l’equilibrio di queste due anime in un’armoniosa conciliazione.

L’espressione ‘chambre à coucher’ si impose pienamente solo a metà del XVIII secolo, segnando un’evoluzione nel modo di concepire e di organizzare la casa: si stava riconoscendo uno spazio riservato in modo specifico al sonno. Dormire, infatti, è una tecnica, allo stesso tempo bisogno fisiologico e consuetudine frutto di abitudini e tradizioni differenti: usare un materasso, una stuoia o un’amaca; quale tipo di cuscino preferire; dormire coperti o scoperti. Anche nel sonno, ciascuno adotta un proprio habitus che varia con le civiltà, i principi educativi, le convenienze, le mode, le intime distanze che ci legano agli esseri e alle cose.

Per questo, è necessaria l’armonia fra la forma del nostro riposo e quella del nostro abitare, che ci permette di conciliare mondo interiore, anche inconscio, e mondo esteriore.

Perfino quando crediamo di ritirarci con discrezione dalla società per recuperare le forze in una dimensione – quella del sonno – privata e inaccessibile, ci aggreghiamo invece più che mai alla comunità umana, poiché «disinteressarsi», come dice Bergson, implica essere in balia della comunità che veglia su di noi per lasciarci riposare.

Nel silenzio della camera da letto, facciamo esperienza delle relazioni più intime e profonde: quella con il proprio io inconscio attraverso il sogno, ma anche quella con l’altro, attraverso la fusione di corpi e anime. Sogno e sensualità sono intimamente legati e trovano la loro piena espressione nello spazio della camera da letto.

Così, essa va a rappresentare uno spazio di completo abbandono, dove lasciamo andare il controllo su noi stessi e sul mondo - non senza aver riesaminato le azioni del giorno appena trascorso e programmato quelle a venire.

Laddove Des Esseintes, protagonista del romanzo A ritroso di Huysmans, afferma che «v’erano solo due modi per arredare una stanza da letto: o farne un’eccitante alcova, un luogo di diletto notturno; oppure creare un luogo di solitudine e di riposo, un rifugio dei pensieri, una specie di oratorio», la camera da letto del futuro rappresenta, al contrario, l’equilibrio di queste due anime in un’armoniosa conciliazione.

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Cameretta
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Ciò che è opposto si concilia, dalle cose in contrasto nasce l’armonia più bella e tutto si genera per via di contesa.

Eraclito

Ciò che è opposto si concilia, dalle cose in contrasto nasce l’armonia più bella e tutto si genera per via di contesa.

Eraclito

«Il gioco è una cosa seria. Anzi, tremendamente seria», sosteneva lo scrittore e pedagogo tedesco Jean Paul. Attraverso il gioco, infatti, il bambino sviluppa non soltanto le sue capacità fisiche, ma anche intellettuali, immaginative ed empatiche, creando le basi della socialità e della sua futura realizzazione. Da un punto di vista antropologico, si ritiene che le dinamiche rituali connesse al gioco abbiano un’importante funzione di mantenimento della struttura sociale.

Giocare, poi, è anche un modo per esorcizzare ansie e paure, grazie a invincibili superpoteri o indistruttibili strumenti magici. Il gioco, inoltre, risponde a regole e dinamiche rituali che, come sottolineato dall’antropologo americano Rappaport, non identifica semplicemente che cosa è ‘sacro’, ma lo crea.

È quindi necessario progettare uno spazio specificamente dedicato al gioco dei bambini, luogo di scoperta e apprendimento, di espressione di sé e introspezione attraverso la creatività e la ribellione. Più che una stanza, la cameretta dei bambini rappresenta un luogo della mente fatto di colori, suoni, oggetti sparsi in un ordine caotico.

Gli unici confini che la delimitano sono quelli che vengono di volta in volta tracciati dai suoi occupanti, che possono trasformare questo spazio in un campo scoperto, in un regno infinito o in una minuscola navicella spaziale, ma anche nel proprio rifugio privato e inaccessibile, simbolo di ribellione dove scoprire ed esprimere se stessi. La cameretta si configura allora come uno spazio di definizione dell’identità, in continua evoluzione.

E se il bambino è naturalmente incline a riconoscere e rispettare la serietà del gioco, l’adulto ha spesso perso la capacità di giocare, di abbandonarsi alla creatività e alla fantasia, sepolte sotto una spessa coltre di pragmatico e cinico realismo. Diventa allora fondamentale ripensare uno spazio di gioco, una moderna cameretta dove anche gli adulti possono (ri)scoprire il valore del gioco e la relazione con quel ‘fanciullino’ capace di varcare i confini dell’immaginazione alla scoperta del futuro e – perché no – dell’impossibile.

«Il gioco è una cosa seria. Anzi, tremendamente seria», sosteneva lo scrittore e pedagogo tedesco Jean Paul. Attraverso il gioco, infatti, il bambino sviluppa non soltanto le sue capacità fisiche, ma anche intellettuali, immaginative ed empatiche, creando le basi della socialità e della sua futura realizzazione. Da un punto di vista antropologico, si ritiene che le dinamiche rituali connesse al gioco abbiano un’importante funzione di mantenimento della struttura sociale.

Giocare, poi, è anche un modo per esorcizzare ansie e paure, grazie a invincibili superpoteri o indistruttibili strumenti magici. Il gioco, inoltre, risponde a regole e dinamiche rituali che, come sottolineato dall’antropologo americano Rappaport, non identifica semplicemente che cosa è ‘sacro’, ma lo crea.

È quindi necessario progettare uno spazio specificamente dedicato al gioco dei bambini, luogo di scoperta e apprendimento, di espressione di sé e introspezione attraverso la creatività e la ribellione. Più che una stanza, la cameretta dei bambini rappresenta un luogo della mente fatto di colori, suoni, oggetti sparsi in un ordine caotico.

Gli unici confini che la delimitano sono quelli che vengono di volta in volta tracciati dai suoi occupanti, che possono trasformare questo spazio in un campo scoperto, in un regno infinito o in una minuscola navicella spaziale, ma anche nel proprio rifugio privato e inaccessibile, simbolo di ribellione dove scoprire ed esprimere se stessi. La cameretta si configura allora come uno spazio di definizione dell’identità, in continua evoluzione.

E se il bambino è naturalmente incline a riconoscere e rispettare la serietà del gioco, l’adulto ha spesso perso la capacità di giocare, di abbandonarsi alla creatività e alla fantasia, sepolte sotto una spessa coltre di pragmatico e cinico realismo. Diventa allora fondamentale ripensare uno spazio di gioco, una moderna cameretta dove anche gli adulti possono (ri)scoprire il valore del gioco e la relazione con quel ‘fanciullino’ capace di varcare i confini dell’immaginazione alla scoperta del futuro e – perché no – dell’impossibile.

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Bagno
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Il compito principale nella vita di ognuno è dare alla luce se stesso.

Erich Fromm

Il compito principale nella vita di ognuno è dare alla luce se stesso.

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Il termine bagno, dal latino balneum, indica originariamente l’immersione del corpo in acqua (o altro liquido) per scopi non obbligatoriamente igienici o curativi, ma anche simbolici e rituali. In una società come la nostra, in cui la cura del corpo è diventata un vero e proprio culto religioso, la stanza da bagno rappresenta una sorta di tempio del benessere fisico e spirituale. Il bagno può allora trasformarsi in una vera e propria pratica spirituale, un’esperienza avvolgente e rigenerante da condividere con le persone care e perfino con gli ospiti. È quanto avviene in Giappone, dove il concetto di bagno va ben oltre il bagno tradizionalmente conosciuto dagli occidentali: l’ofuro, infatti, è un vero e proprio rituale regolato da una gestualità ben precisa, osservata con la massima serietà.

Al riparo da sguardi indiscreti, dal giudizio esterno e dalla pressione di un mondo che ci vorrebbe sempre in movimento, il momento della toletta rappresenta un’opportunità di silenziosa e sincera contemplazione di se stessi. Se il corpo è lo specchio dell’animo, attraverso l’ascolto dei segnali che costantemente ci invia possiamo analizzare e comprendere meglio i nostri pensieri, le nostre emozioni, il nostro essere autentico. In bagno, impariamo a stabilire una relazione sana con il nostro corpo e misuriamo il nostro stato di salute fisica e mentale.

Prendendoci cura del nostro benessere psicofisico, possiamo allora diventare più sereni, comprensivi ed efficaci nel rapporto con noi stessi e con gli altri. Più che in ogni altra stanza, infatti, è nel bagno che, pirandellianamente, decidiamo ogni giorno quale maschera indossare e mostrare in società. ‘Ci si fa belli’ per un’occasione speciale, per festeggiare, per uscire o semplicemente per mostrarci in tutto il nostro splendore.

Considerare la stanza da bagno come un semplice spazio di servizio significherebbe, quindi, ignorarne l’essenza e il profondo valore sociale e relazionale. Per questo, il bagno del futuro concilia intimità e condivisione, individualità e socialità, solitudine e relazioni, trasformandosi in un luogo dove curare l’igiene del corpo e della mente.

Il termine bagno, dal latino balneum, indica originariamente l’immersione del corpo in acqua (o altro liquido) per scopi non obbligatoriamente igienici o curativi, ma anche simbolici e rituali. In una società come la nostra, in cui la cura del corpo è diventata un vero e proprio culto religioso, la stanza da bagno rappresenta una sorta di tempio del benessere fisico e spirituale. Il bagno può allora trasformarsi in una vera e propria pratica spirituale, un’esperienza avvolgente e rigenerante da condividere con le persone care e perfino con gli ospiti. È quanto avviene in Giappone, dove il concetto di bagno va ben oltre il bagno tradizionalmente conosciuto dagli occidentali: l’ofuro, infatti, è un vero e proprio rituale regolato da una gestualità ben precisa, osservata con la massima serietà.

Al riparo da sguardi indiscreti, dal giudizio esterno e dalla pressione di un mondo che ci vorrebbe sempre in movimento, il momento della toletta rappresenta un’opportunità di silenziosa e sincera contemplazione di se stessi. Se il corpo è lo specchio dell’animo, attraverso l’ascolto dei segnali che costantemente ci invia possiamo analizzare e comprendere meglio i nostri pensieri, le nostre emozioni, il nostro essere autentico. In bagno, impariamo a stabilire una relazione sana con il nostro corpo e misuriamo il nostro stato di salute fisica e mentale.

Prendendoci cura del nostro benessere psicofisico, possiamo allora diventare più sereni, comprensivi ed efficaci nel rapporto con noi stessi e con gli altri. Più che in ogni altra stanza, infatti, è nel bagno che, pirandellianamente, decidiamo ogni giorno quale maschera indossare e mostrare in società. ‘Ci si fa belli’ per un’occasione speciale, per festeggiare, per uscire o semplicemente per mostrarci in tutto il nostro splendore.

Considerare la stanza da bagno come un semplice spazio di servizio significherebbe, quindi, ignorarne l’essenza e il profondo valore sociale e relazionale. Per questo, il bagno del futuro concilia intimità e condivisione, individualità e socialità, solitudine e relazioni, trasformandosi in un luogo dove curare l’igiene del corpo e della mente.

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Giardino
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Quest’ombra, pur non essendo verità, deriva tuttavia dalla verità e conduce alla verità, di conseguenza, non devi credere che in essa sia insito l’errore, ma che vi sia il meccanismo del vero.

Giordano Bruno

Quest’ombra, pur non essendo verità, deriva tuttavia dalla verità e conduce alla verità, di conseguenza, non devi credere che in essa sia insito l’errore, ma che vi sia il meccanismo del vero.

Giordano Bruno

Da sempre, il giardino ha un ruolo fondamentale nel percorso e nello sviluppo della civiltà, esprimendo la relazione esistente tra una civiltà e il suo ambiente naturale. Per stare bene, infatti, abbiamo bisogno di intimità e protezione, ma anche di spazi aperti e natura. Essere circondati da piante e fiori genera risposte fisiologiche come una maggiore attività cerebrale e una riduzione degli ormoni dello stress.

Nel Medioevo, il giardino (hortus conclusus) è uno spazio al servizio della mente, luogo di meditazione e raccoglimento spirituale, incarnazione terrena del paradiso, ricerca dell’ideale.

Nel nostro piccolo, una passeggiata in giardino diventa un’occasione per illuminare la mente e aumentare la conoscenza di sé e del mondo che ci circonda. E quale migliore metafora, se non quella della luce, per significare la conoscenza? Basti pensare all’Illuminismo, la cui vocazione principale era quella di ‘illuminare’ la mente degli uomini, ottenebrata dall’ignoranza e dalla superstizione. Troppa luce, però, può diventare accecante: ecco che allora entrano in gioco le piante e gli alberi del giardino, che con i loro rami e le loro foglie filtrano la luce diretta del sole.

Scopriamo così il potere dell’ombra, che, intesa come opportuna progettazione della luce, dà forma, prospettiva e profondità a ciò che ci circonda.

Ma il termine hortus, corrispondente latino del nostro ‘giardino’, presenta anche un altro significato, indicando un piccolo appezzamento di terra coltivato a fini alimentari con ortaggi e piante da frutto. Oggi, soprattutto nei Paesi industrializzati, la produzione di massa ci ha abituati a ‘raccogliere’ frutta e verdura dai freddi scaffali di un supermercato. Unendo attività pratica e attività contemplativa, l’orto si trasforma così in una straordinaria opportunità per riconciliarsi con le proprie radici, attraverso la (ri)scoperta dei ritmi della natura e dei gesti dei nostri predecessori, provvedendo non solo al nutrimento del corpo, ma anche e soprattutto a quello dell’animo.

Da sempre, il giardino ha un ruolo fondamentale nel percorso e nello sviluppo della civiltà, esprimendo la relazione esistente tra una civiltà e il suo ambiente naturale. Per stare bene, infatti, abbiamo bisogno di intimità e protezione, ma anche di spazi aperti e natura. Essere circondati da piante e fiori genera risposte fisiologiche come una maggiore attività cerebrale e una riduzione degli ormoni dello stress.

Nel Medioevo, il giardino (hortus conclusus) è uno spazio al servizio della mente, luogo di meditazione e raccoglimento spirituale, incarnazione terrena del paradiso, ricerca dell’ideale.

Nel nostro piccolo, una passeggiata in giardino diventa un’occasione per illuminare la mente e aumentare la conoscenza di sé e del mondo che ci circonda. E quale migliore metafora, se non quella della luce, per significare la conoscenza? Basti pensare all’Illuminismo, la cui vocazione principale era quella di ‘illuminare’ la mente degli uomini, ottenebrata dall’ignoranza e dalla superstizione. Troppa luce, però, può diventare accecante: ecco che allora entrano in gioco le piante e gli alberi del giardino, che con i loro rami e le loro foglie filtrano la luce diretta del sole.

Scopriamo così il potere dell’ombra, che, intesa come opportuna progettazione della luce, dà forma, prospettiva e profondità a ciò che ci circonda.

Ma il termine hortus, corrispondente latino del nostro ‘giardino’, presenta anche un altro significato, indicando un piccolo appezzamento di terra coltivato a fini alimentari con ortaggi e piante da frutto. Oggi, soprattutto nei Paesi industrializzati, la produzione di massa ci ha abituati a ‘raccogliere’ frutta e verdura dai freddi scaffali di un supermercato. Unendo attività pratica e attività contemplativa, l’orto si trasforma così in una straordinaria opportunità per riconciliarsi con le proprie radici, attraverso la (ri)scoperta dei ritmi della natura e dei gesti dei nostri predecessori, provvedendo non solo al nutrimento del corpo, ma anche e soprattutto a quello dell’animo.

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Serra
Serra
Serra
Serra

Levin aveva perso ogni nozione del tempo e proprio non sapeva se fosse tardi o presto. Nel suo lavoro si era verificato un cambiamento che gli fece grande piacere. Mentre lavorava aveva dei momenti nei quali dimenticava quello che faceva, si sentiva leggero, e proprio in quei momenti la falciata gli veniva fuori uguale e bella quasi come quella di Tit.

Lev Tolstoj

Levin aveva perso ogni nozione del tempo e proprio non sapeva se fosse tardi o presto. Nel suo lavoro si era verificato un cambiamento che gli fece grande piacere. Mentre lavorava aveva dei momenti nei quali dimenticava quello che faceva, si sentiva leggero, e proprio in quei momenti la falciata gli veniva fuori uguale e bella quasi come quella di Tit.

Lev Tolstoj

Tradizionalmente, la serra è la stanza delle piante, un ambiente chiuso costruito per ricreare artificialmente condizioni di temperatura, illuminazione e umidità che permettono di coltivare piante che altrimenti crescerebbero solo in ambienti più caldi o, al contrario, più freddi. Luoghi di meraviglia ed esotismo, che ci fanno viaggiare nello spazio e, talvolta, anche nel tempo, alla scoperta di specie botaniche rare, magari perfino estinte in natura, dalle forme e colori mai visti. La serra rappresenta uno spazio di esplorazione, non solo edonistica, ma anche scientifica. Proprio grazie a minuziosi esperimenti su delle piante di Pisum sativum, meglio conosciuto come pisello, il frate agostiniano Gregor Mendel scoprì i fondamenti della genetica moderna.

La serra del futuro si riappropria allora di questa dimensione, trasformandosi in un laboratorio di ricerca e sperimentazione, una sorta di hub dell’innovazione sui generis: sempre, comunque, uno spazio fluido che raggruppa al suo interno diverse identità, senza limiti o separazioni. Non si pensi infatti che l’idea di laboratorio escluda l’imperfezione, l’errore, l’imprevisto; al contrario, non devono mancare le contaminazioni e le ‘erbacce’, metafora di una sana e vitale ribellione allo status quo, di un’indisciplinarietà che diventa fonte di nuove idee e soluzioni creative. All’interno della serra, infatti, è anche possibile sbagliare, studiare i propri errori in un contesto sicuro e favorevole alla nascita di associazioni impreviste; perché «le piante e i fiori sono come i nostri progetti: alcuni non si sviluppano, altri crescono quando meno ce lo aspettiamo» (Romano Battaglia, scrittore e giornalista italiano).

Tradizionalmente, la serra è la stanza delle piante, un ambiente chiuso costruito per ricreare artificialmente condizioni di temperatura, illuminazione e umidità che permettono di coltivare piante che altrimenti crescerebbero solo in ambienti più caldi o, al contrario, più freddi. Luoghi di meraviglia ed esotismo, che ci fanno viaggiare nello spazio e, talvolta, anche nel tempo, alla scoperta di specie botaniche rare, magari perfino estinte in natura, dalle forme e colori mai visti. La serra rappresenta uno spazio di esplorazione, non solo edonistica, ma anche scientifica. Proprio grazie a minuziosi esperimenti su delle piante di Pisum sativum, meglio conosciuto come pisello, il frate agostiniano Gregor Mendel scoprì i fondamenti della genetica moderna.

La serra del futuro si riappropria allora di questa dimensione, trasformandosi in un laboratorio di ricerca e sperimentazione, una sorta di hub dell’innovazione sui generis: sempre, comunque, uno spazio fluido che raggruppa al suo interno diverse identità, senza limiti o separazioni. Non si pensi infatti che l’idea di laboratorio escluda l’imperfezione, l’errore, l’imprevisto; al contrario, non devono mancare le contaminazioni e le ‘erbacce’, metafora di una sana e vitale ribellione allo status quo, di un’indisciplinarietà che diventa fonte di nuove idee e soluzioni creative. All’interno della serra, infatti, è anche possibile sbagliare, studiare i propri errori in un contesto sicuro e favorevole alla nascita di associazioni impreviste; perché «le piante e i fiori sono come i nostri progetti: alcuni non si sviluppano, altri crescono quando meno ce lo aspettiamo» (Romano Battaglia, scrittore e giornalista italiano).

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Garage
Garage
Garage
Garage

Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi.

Italo Calvino

Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi.

Italo Calvino

Nel secolo dell’automobile, il garage ha rappresentato il riparo dei veicoli a motore, che quasi avevano finito per coincidere con la mobilità umana tout court. Oggi, invece, stiamo riscoprendo il modo più naturale di cui l’essere umano dispone per muoversi: camminare. I primi passi rappresentano un momento carico di emozione e significato, il primo distacco del bambino dal genitore. Senza contare che camminare ha segnato una tappa fondamentale dell’evoluzione umana, con notevoli vantaggi di carattere pratico e sociale.

A differenza di altre specie animali, l’uomo è per natura un camminatore: da homo erectus a flâneur, esploratore della città che vaga senza meta, per il puro piacere di camminare immerso nei propri pensieri e fantasticherie, impegnato in un esercizio spirituale più che fisico. Nel vagare, vi è qualcosa di inspiegabilmente desiderabile, attraente, con una sfumatura d’incanto, letteralmente: il termine ‘vago’, infatti, nella sua accezione meno conosciuta, indica qualcosa di leggiadro, di una bellezza non vistosa, mista di grazia e dolcezza, come le «vaghe stelle dell’Orsa» leopardiane.

Eppure, oggi abbiamo perso l’abitudine di camminare, costretti ogni giorno dentro gli stretti abitacoli di automobili, tram, autobus e treni, che ci hanno fatto perdere il contatto con la nostra mobilità naturale e con l’ambiente che ci circonda. La pandemia, però, ci ha costretti a ripensare la nostra mobilità e a riconsiderare l’organizzazione dei nostri spazi non solo privati, ma anche – e soprattutto – urbani. Si è affermata così l’idea della ‘città dei 15 minuti’, fatta propria da architetti come Stefano Boeri e Carlo Ratti: una città in cui è possibile raggiungere, a piedi o in bici, tutti i servizi necessari per mangiare, divertirsi e lavorare.

Da rifugio per le automobili, il garage del futuro custodirà solo mezzi a energia biologica, funzionali a una mobilità che rispetta i bioritmi dell’uomo e della natura, attenta all’ambiente e fonte di innumerevoli benefici anche a livello della nostra salute psicofisica.

Nel secolo dell’automobile, il garage ha rappresentato il riparo dei veicoli a motore, che quasi avevano finito per coincidere con la mobilità umana tout court. Oggi, invece, stiamo riscoprendo il modo più naturale di cui l’essere umano dispone per muoversi: camminare. I primi passi rappresentano un momento carico di emozione e significato, il primo distacco del bambino dal genitore. Senza contare che camminare ha segnato una tappa fondamentale dell’evoluzione umana, con notevoli vantaggi di carattere pratico e sociale.

A differenza di altre specie animali, l’uomo è per natura un camminatore: da homo erectus a flâneur, esploratore della città che vaga senza meta, per il puro piacere di camminare immerso nei propri pensieri e fantasticherie, impegnato in un esercizio spirituale più che fisico. Nel vagare, vi è qualcosa di inspiegabilmente desiderabile, attraente, con una sfumatura d’incanto, letteralmente: il termine ‘vago’, infatti, nella sua accezione meno conosciuta, indica qualcosa di leggiadro, di una bellezza non vistosa, mista di grazia e dolcezza, come le «vaghe stelle dell’Orsa» leopardiane.

Eppure, oggi abbiamo perso l’abitudine di camminare, costretti ogni giorno dentro gli stretti abitacoli di automobili, tram, autobus e treni, che ci hanno fatto perdere il contatto con la nostra mobilità naturale e con l’ambiente che ci circonda. La pandemia, però, ci ha costretti a ripensare la nostra mobilità e a riconsiderare l’organizzazione dei nostri spazi non solo privati, ma anche – e soprattutto – urbani. Si è affermata così l’idea della ‘città dei 15 minuti’, fatta propria da architetti come Stefano Boeri e Carlo Ratti: una città in cui è possibile raggiungere, a piedi o in bici, tutti i servizi necessari per mangiare, divertirsi e lavorare.

Da rifugio per le automobili, il garage del futuro custodirà solo mezzi a energia biologica, funzionali a una mobilità che rispetta i bioritmi dell’uomo e della natura, attenta all’ambiente e fonte di innumerevoli benefici anche a livello della nostra salute psicofisica.

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Quartiere
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… ed ordinata in pria
l’umana compagnia
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce.

Giacomo Leopardi

… ed ordinata in pria
l’umana compagnia
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce.

Giacomo Leopardi

Per secoli la separazione fra vita pubblica e privata è stata rimarcata dall’appartenenza a luoghi ben distinti: lo spazio urbano per la prima, la casa per la seconda.

Nell’epoca contemporanea, tuttavia, la distinzione è molto meno definita: alcune caratteristiche della casa iniziano ad apparire anche nei bar, negli uffici, nei musei, nelle piazze e persino negli edifici di passaggio, come aeroporti e stazioni. Il concetto di ‘domesticità’ si mescola a quello di ‘urbanicità’, in un intorno privato che non è mai completamente privato, ma che determina il principio di un cambiamento radicale nel modo di vivere il rapporto fra la casa e l’immediato esterno, il quartiere.

La pandemia l’ha ulteriormente dimostrato: l’essere umano è un animale sociale, che necessita non solo di relazioni, ma anche di momenti negli spazi comuni; la limitazione di questa possibilità può causare gravi conseguenze a livello psicologico e comportamentale. L’obbligo di stare in casa ha perciò nuovamente stravolto la nostra percezione. Se da un lato lo spazio domestico è tornato ad assumere il ruolo tradizionale di rifugio, dall’altro lato ha rivelato la sua inadeguatezza nel sostituirsi alla piazza, da sempre luogo della res publica e della vita sociale.

Ora più che mai appare quindi necessario riscoprire la dimensione del quartiere, ricominciare ad abitarlo. Una passeggiata di quindici minuti dovrebbe definire uno spazio senza barriere né architettoniche né culturali: un quartiere a misura di tutti, luogo di incontro e inclusione sociale in cui tutti sentono di appartenere a una comunità. Le architetture del futuro devono tenere conto di questa necessità di integrazione psicologica e strutturale, creando degli spazi di connessione tra gli edifici e con l’esterno, luoghi che coesistono in necessaria simbiosi fra loro e con lo spazio urbano, cosicché le soglie cessino di rappresentare delle barriere per trasformarsi in aperture, scambio fluido di energia.

Per secoli la separazione fra vita pubblica e privata è stata rimarcata dall’appartenenza a luoghi ben distinti: lo spazio urbano per la prima, la casa per la seconda.

Nell’epoca contemporanea, tuttavia, la distinzione è molto meno definita: alcune caratteristiche della casa iniziano ad apparire anche nei bar, negli uffici, nei musei, nelle piazze e persino negli edifici di passaggio, come aeroporti e stazioni. Il concetto di ‘domesticità’ si mescola a quello di ‘urbanicità’, in un intorno privato che non è mai completamente privato, ma che determina il principio di un cambiamento radicale nel modo di vivere il rapporto fra la casa e l’immediato esterno, il quartiere.

La pandemia l’ha ulteriormente dimostrato: l’essere umano è un animale sociale, che necessita non solo di relazioni, ma anche di momenti negli spazi comuni; la limitazione di questa possibilità può causare gravi conseguenze a livello psicologico e comportamentale. L’obbligo di stare in casa ha perciò nuovamente stravolto la nostra percezione. Se da un lato lo spazio domestico è tornato ad assumere il ruolo tradizionale di rifugio, dall’altro lato ha rivelato la sua inadeguatezza nel sostituirsi alla piazza, da sempre luogo della res publica e della vita sociale.

Ora più che mai appare quindi necessario riscoprire la dimensione del quartiere, ricominciare ad abitarlo. Una passeggiata di quindici minuti dovrebbe definire uno spazio senza barriere né architettoniche né culturali: un quartiere a misura di tutti, luogo di incontro e inclusione sociale in cui tutti sentono di appartenere a una comunità. Le architetture del futuro devono tenere conto di questa necessità di integrazione psicologica e strutturale, creando degli spazi di connessione tra gli edifici e con l’esterno, luoghi che coesistono in necessaria simbiosi fra loro e con lo spazio urbano, cosicché le soglie cessino di rappresentare delle barriere per trasformarsi in aperture, scambio fluido di energia.

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Vano
Vano
Vano
Vano

Il vuoto, che concettualmente rischia di essere scambiato per il puro nulla, nei fatti è il serbatoio di infinite possibilità.

Daisetsu Teitarō Suzuki

Il vuoto, che concettualmente rischia di essere scambiato per il puro nulla, nei fatti è il serbatoio di infinite possibilità.

Daisetsu Teitarō Suzuki

Il vano è quella stanza in più, che a noi piace lasciare indefinita. Solo perché non ha una funzione già determinata non significa che un luogo non consenta di esplorare altre dimensioni, valori, significati: perché un vano non è mai invano, è solo vuoto. Una sorta di dedica all’amor vacui, alla necessità del silenzio e del bianco.

Uno spazio prezioso perché ci permette di trasformare il nostro monologo di stanze in un dialogo con chi ci legge.

Per alcuni, questo vano potrà prendere la forma del corridoio, spazio sottovalutato che può diventare galleria d’arte, biblioteca monumentale o passaggio quasi pubblico - come il Corridoio Vasariano.

Per altri sarà una soffitta, dove possono annidarsi misteri, segreti e tesori di ogni genere.

Per altri ancora, non potrà che essere quello spazio speciale riservato al proprio animale domestico.

Il vano può essere questo e tanto altro: a voi, la libertà di prenderlo e farlo vostro.

Il vano è quella stanza in più, che a noi piace lasciare indefinita. Solo perché non ha una funzione già determinata non significa che un luogo non consenta di esplorare altre dimensioni, valori, significati: perché un vano non è mai invano, è solo vuoto. Una sorta di dedica all’amor vacui, alla necessità del silenzio e del bianco.

Uno spazio prezioso perché ci permette di trasformare il nostro monologo di stanze in un dialogo con chi ci legge.

Per alcuni, questo vano potrà prendere la forma del corridoio, spazio sottovalutato che può diventare galleria d’arte, biblioteca monumentale o passaggio quasi pubblico - come il Corridoio Vasariano.

Per altri sarà una soffitta, dove possono annidarsi misteri, segreti e tesori di ogni genere.

Per altri ancora, non potrà che essere quello spazio speciale riservato al proprio animale domestico.

Il vano può essere questo e tanto altro: a voi, la libertà di prenderlo e farlo vostro.

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Valore
Valore
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Il Gran Kan cercava d’immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d’ogni partita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i moltiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato: il nulla… [...]

Allora Marco Polo parlò:  – La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di spuntare in un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l’obbligò a desistere –. Il Gran Kan non s’era fin’allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. – Ecco un poro più grosso: forse è stato il nido d’una larva; non d’un tarlo, perché appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto per essere abbattuto… Questo margine fu inciso dall’ebanista con la sgorbia perché aderisse al quadrato vicino, più sporgente…

La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre…

Italo Calvino

Il Gran Kan cercava d’immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirgli. Il fine d’ogni partita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all’essenza, Kublai era arrivato all’operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i moltiformi tesori dell’impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato: il nulla… [...]

Allora Marco Polo parlò:  – La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di spuntare in un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l’obbligò a desistere –. Il Gran Kan non s’era fin’allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. – Ecco un poro più grosso: forse è stato il nido d’una larva; non d’un tarlo, perché appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto per essere abbattuto… Questo margine fu inciso dall’ebanista con la sgorbia perché aderisse al quadrato vicino, più sporgente…

La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre…

Italo Calvino

In generale il valore della casa dipende dalle dimensioni, dalla caratura estetica e dalle coordinate geografiche, inclusa la distanza da altre abitazioni.

Le caratteristiche oggettive però aprono le porte a tutt’altra attribuzione di valore, quella relazionale. Poter usufruire di uno spazio sufficiente, in un posto che ci piace, permette di costruire relazioni soddisfacenti al suo interno e all’esterno.

Il valore complessivo di una casa, quindi, è dato dai valori racchiusi in ciascuna delle stanze che la compongono, misurati sia in termini fisici che relazionali. Per chi ha dimestichezza con la matematica, la formula riportata nella pagina a fianco è piuttosto chiara. Per gli altri, facciamoci guidare da Kant, secondo cui lo spazio è «la possibilità dell’essere insieme».

Ecco che il valore misurato in termini fisici si fa condizione necessaria ma non sufficiente per l’attribuzione di valore di un’abitazione (Metri quadris). Infatti, sono le forme sociali dell’abitare che le forme fisiche ospitano ad assumere maggiore rilevanza (Relazionis). Una casa grande in un bel posto è una buona partenza ma saranno le relazioni costruite nel tempo al suo interno e con l’esterno che ne determineranno il valore complessivo. E con lo stare assieme kantiano s’intende la relazione con le persone, ma anche con gli oggetti, con gli animali e con le piante, come indicano le stanze del nostro laboratorio.

Per dimostrare l’importanza del valore delle relazioni pensiamo all’eredità. Generalmente, la casa è uno dei primi beni che associamo a questo concetto. Altrettanto frequentemente ne identifichiamo il valore lasciato in eredità in termini fisico-spaziali: di nuovo, le dimensioni, le coordinate e così via.

Ma il valore lasciato in eredità è composto anche e soprattutto da relazioni. Questo spiega la difficoltà a vendere la casa lasciata in eredità dei genitori o al contrario la fretta nel separarsene, se custode di ricordi negativi. Pensiamo anche al valore delle abitazioni che hanno dato i natali a figure di spicco.

Per questi motivi l’interesse dei progettisti non deve risiedere solo nelle forme abitative ma anche nelle forme dell’abitare: ci si deve chiedere, ogni volta, cosa si sta lasciando in eredità.

In generale il valore della casa dipende dalle dimensioni, dalla caratura estetica e dalle coordinate geografiche, inclusa la distanza da altre abitazioni.

Le caratteristiche oggettive però aprono le porte a tutt’altra attribuzione di valore, quella relazionale. Poter usufruire di uno spazio sufficiente, in un posto che ci piace, permette di costruire relazioni soddisfacenti al suo interno e all’esterno.

Il valore complessivo di una casa, quindi, è dato dai valori racchiusi in ciascuna delle stanze che la compongono, misurati sia in termini fisici che relazionali. Per chi ha dimestichezza con la matematica, la formula riportata nella pagina a fianco è piuttosto chiara. Per gli altri, facciamoci guidare da Kant, secondo cui lo spazio è «la possibilità dell’essere insieme».

Ecco che il valore misurato in termini fisici si fa condizione necessaria ma non sufficiente per l’attribuzione di valore di un’abitazione (Metri quadris). Infatti, sono le forme sociali dell’abitare che le forme fisiche ospitano ad assumere maggiore rilevanza (Relazionis). Una casa grande in un bel posto è una buona partenza ma saranno le relazioni costruite nel tempo al suo interno e con l’esterno che ne determineranno il valore complessivo. E con lo stare assieme kantiano s’intende la relazione con le persone, ma anche con gli oggetti, con gli animali e con le piante, come indicano le stanze del nostro laboratorio.

Per dimostrare l’importanza del valore delle relazioni pensiamo all’eredità. Generalmente, la casa è uno dei primi beni che associamo a questo concetto. Altrettanto frequentemente ne identifichiamo il valore lasciato in eredità in termini fisico-spaziali: di nuovo, le dimensioni, le coordinate e così via.

Ma il valore lasciato in eredità è composto anche e soprattutto da relazioni. Questo spiega la difficoltà a vendere la casa lasciata in eredità dei genitori o al contrario la fretta nel separarsene, se custode di ricordi negativi. Pensiamo anche al valore delle abitazioni che hanno dato i natali a figure di spicco.

Per questi motivi l’interesse dei progettisti non deve risiedere solo nelle forme abitative ma anche nelle forme dell’abitare: ci si deve chiedere, ogni volta, cosa si sta lasciando in eredità.

La nostra Mission

Vogliamo creare una comunità, quanto più ampia e indisciplinata possibile, per trasformare la filosofia e la pratica dell’abitare.

Nuove esigenze, singole e collettive, si stanno manifestando con sempre maggiore determinazione ed è quindi necessario promuovere un nuovo modo di intendere la progettazione, integrando competenze diverse nella realizzazione di ogni progetto, dalla psicologia ambientale alle arti e alla sociologia.

Tanti individui e realtà innovative hanno già iniziato a tracciare la strada: nel Manifesto, possono trovare una piattaforma per condividere riflessioni, metodi, tecniche di progettazione e di produzione che rispettino e promuovano la sostenibilità a tutto tondo: economica, ambientale, sociale ed estetica.

L’abitare dell’oggi e del domani non può più prescindere da questi capisaldi e dall’approccio One Health, che la comunità raccolta sotto l’insegna del Manifesto si impegna ad approfondire, sviluppare e tradurre in realtà.

Progetti, eventi, corsi di studio, installazioni artistiche e pubblicazioni: il Manifesto prende tutte queste forme e rimane aperto ad altre proposte e collaborazioni per diffondere capillarmente la nostra visione e per connettere i professionisti che credono davvero che il proprio contributo possa fare la differenza.

Iniziative

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